La storia un piccolo commerciante: "Salvato dal progetto Penelope"

«Ho pensato di farla finita. Per un lungo periodo ho evitato di prendere l’A27 per andare a Belluno perché quel viadotto…». Mauro (nome di fantasia) è un piccolo commerciante dell’hinterland di Treviso, 50 mila euro di contributi e tasse non pagati all’erario, negli anni lievitati a 90 mila. Un appartamento pignorato. Il fiato addosso di Equitalia. L’attività commerciale sempre meno redditizia. Tanti giri a vuoto, sempre meno ordini. Il mezzo nuovo in leasing. E l’incubo diventa insonnia, attacchi di panico, angoscia che non molla né di giorno né di notte.

«Ero terrorizzato, lo sono ancora in realtà, dalla prospettiva di diventare un barbone – racconta – è diventata una battaglia quotidiana riuscire a far fronte alle spese di prima necessità. In pochi mesi, se la situazione non cambia, rischio di mangiarmi i pochi soldi che sono riuscito a mettere via. Poi chi mi aiuterà?».

Cosa l’ha trattenuta dal farla finita?

Lo strazio che causerei alle persone che mi vogliono bene. A fine dicembre, dopo aver visto in tivù una trasmissione sugli imprenditori nella crisi, ho cercato su internet “imprenditori suicidi”. Ho chiamato il numero di telefono che mi è comparso e sono stato messo in contatto con il progetto Penelope e con il numero verde della Regione. Ho trovato persone che mi hanno aiutato, che hanno cambiato la direzione della mia vita.

Adesso come sta?

Ci sono giorni in cui riesco a vendere e sono sollevato. Giorni in cui non vendo nulla e mi crolla tutto. Ma amo il mio mestiere e lo faccio ancora volentieri, anche se essere lavoratori autonomi è sempre più faticoso, devi inventarti ogni giorno qualcosa di nuovo. Alcuni clienti di vecchia data però mi vogliono bene. Ma non traspare nulla di quello che sento e che vivo dentro perché per vendere devo essere sorridente e affabile.

Ha mai raccontato il suo malessere a qualcuno oltre agli operatori dei servizi?

Solo a un’amica, nemmeno i miei parenti stretti sanno. In genere non si parla finché la situazione è disperata e poi ancora meno.

Perché non si parla?

Perché pensi di aver fatto degli errori e che gli altri, lì fuori, stiano tutti meglio di te. Fa male dichiararsi perché è come riconoscere il fallimento totale di se stessi.

In realtà il malessere e le difficoltà sono diffuse. E il fallimento di un’attività lavorativa non è il fallimento di una vita.

È così. La volta che ti apri e racconti i tuoi problemi agli altri, scopri che ne hanno più di te. Più se ne parla e più le persone, che sono bloccate dentro se stesse, escono dai loro nascondigli. C’è tanto disagio nascosto in giro. Io ogni tanto fermo l’auto e vado in mezzo al verde a fare una passeggiata. Nella natura capisco che siamo robotizzati, che ci vorrebbero relazioni più sincere e leali, che dobbiamo smetterla di atteggiarci da superman. Basta davvero poco, alle volte: una pacca sulla spalla e sentirsi dire “a domani”.

Lei ce l’ha fatta a far prevalere la speranza. Cosa direbbe a un collega imprenditore disperato?

Di comporre un numero di telefono prima di prendere decisioni irrevocabili, di darsi un’ultima possibilità. Se ci si confronta si capisce di non essere soli, di essere in due, in dieci, in tanti con gli stessi problemi. Siamo noi imprenditori che teniamo in piedi l’Italia. Serve però che il fisco allenti la morsa, Equitalia non può accanirsi contro chi non ha più nulla da dare.

Francesca Nicastro


 

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